Rafa Benitez in un’intervista concessa al quotidiano La Repubblica si è detto convinto che il calcio sia una “bugia”. In che senso? Nel senso che “certe verità non conviene dirle in pubblico” e per questo motivo le interviste, le conferenze stampa e le dichiarazioni ufficiali risultano sempre in qualche modo falsificate, o quantomeno ritoccate. Concetto non particolarmente originale, ma che diventa un po’ più interessante se a pronunciarlo è un addetto ai lavori:

Lo so anch’io se un mio giocatore ha giocato male, ma non lo ammetterò mai in tv o sui giornali. Lo brucerei, e invece mi serve. Ma è mio diritto e dovere, in privato, parlare con quel giocatore e dirgli dove ha sbagliato e come fare per non rifare quell’errore. Altrimenti, che ci sta a fare un allenatore?

L’intervista procede senza entrare – volutamente – nel merito delle questioni calcistiche più attuali, ma con l’obiettivo di conoscere meglio il tecnico spagnolo che finora in Italia non aveva lasciato un’impronta particolarmente memorabile, vista l’esperienza per nulla esaltante sulla panchina dell’Inter (a proposito della quale si limita a dire, con la consueta eleganza, che “ho avuto poco tempo e chiudiamola qui”, anche se ricorda che “qualcosa in quel poco tempo ho vinto” – la Coppa del mondo per club). Benitez racconta di quanto gli allenatori italiani siano stati importanti per la sua crescita professionale (“Ricordo di quando andavo a vedere gli allenamenti a Milanello, con Arrigo e poi con Capello. Ma sono andato anche alla Fiorentina quando c’era Ranieri. E con quanta attenzione leggevo le fotocopie che mi preparava Franco Ferrari a Coverciano”). Poi rievoca l’incredibile serata di Istanbul, quando il suo Liverpool rimontò nel secondo tempo ben tre gol al Milan arrivando alla conquista della Champions League dopo i calci di rigore (nel suo palmares ci sono, tra gli altri, due Europa League e una Supercoppa Europea):

Pensi che a due minuti dall’intervallo eravamo sotto di due gol e già mi stavo chiedendo cosa avrei potuto dire nell’intervallo ai miei. E tac, becchiamo il terzo. Che ha semplificato le cose, in un certo senso. Ragazzi, ho detto, fin qui hanno giocato solo loro, proviamo a giocare anche noi e se facciamo subito un gol la situazione può cambiare. Ne abbiamo fatti tre in sei minuti e abbiamo rischiato solo su Shevchenko nel finale, ed è stato bravo Dudek. Che sapeva già come avrebbero tirato quattro dei cinque milanisti. Li avevamo analizzati. Di quella grandissima partita voglio dire un’ultima cosa: tra me e Ancelotti nessuno ha sbagliato una mossa, tutto quel che potevamo fare l’abbiamo fatto.

Benitez, nato nel quartiere Aluche di Madrid, a 13 anni entrò nella famiglia del Real da calciatore (ruolo centrocampista arretrato o libero – carriera finita a 26 anni per infortunio) e più di un decennio dopo vi tornò da allenatore delle giovanili. Poi però l’addio perché “volevo seguire una strada tutta mia”, mentre al Real “già da ragazzino t’insegnano che conta solo vincere”.

Il tecnico spagnolo, che pochi giorni fa ha assaggiato per la prima volta un babà e che ammette di non andare pazzo per il pesce, chiude esplicitando la sua filosofia di calcio:

Guardi, l’allenatore perfetto non esiste, come non esiste il giocatore perfetto. Tutti possono migliorare come qualità tecnica, fisica o tattica, questo non si discute. Per me il calcio è 80% pallone e 20% palestra, non di più, forse anche meno. Sa quali sono i giocatori che fanno la fortuna di un tecnico? Quelli bravi a muoversi tra due linee. Come faceva Gianfranco Zola. Come fa Mata. Avendo in rosa due come Hamsik e Pandev, sotto questo profilo sto tranquillo.

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ultimo aggiornamento: 14-10-2013


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