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Calcioscommesse, Gervasoni: “Truccavo partite e lo facevo per soldi”

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Carlo Gervasoni, uomo chiave dell’inchiesta cremonese sul Calcioscommesse, ammette di aver truccato diverse partite anche ai microfoni di Open Space, la trasmissione televisiva condotta dalla ‘iena’ Nadia Toffa e che andrà in onda domenica 11 ottobre su Italia 1. Punzecchiato dalla giornalista Mediaset, Gervasoni, ex calciatore del Piacenza, non ha cercato in alcun modo di dribblare le proprie responsabilità, anzi ammette di averlo fatto per soldi e che se non lo avessero beccato lo avrebbe fatto ancora.

“Ho truccato una dozzina di partite dove ero io in campo – ammette Gervasoni – , poi ho cercato di combinarne altre dove non giocavo. Dare un numero esatto dei calciatori che ho contattato per le combine è complicato, ma più o meno sono riuscito a contattarne una sessantina. Su questi sessanta solo due hanno detto no, un italiano e uno straniero. Gli italiani si ponevano problemi all’inizio, poi quando avevano la mazzetta prima della gara, era più facilitati.

Tutto nacque dall’incontro con il ‘clan degli zingari’, persone in grado di investire ingenti somme di denaro pur di avere un ritorno a livello di scommesse. A guadagnarci erano sostanzialmente tutti, a perdere era ovviamente lo sport sano:

“Il primo contatto con il clan è stato come un corteggiamento – racconta ancora Gervasoni – , siamo andati a cena 4-5 volte, ci hanno fatto capire fondamentalmente quello che dovevamo fare. Loro scommettevano su piattaforme particolari, asiatiche, così da evitare il tracciamento. La prima volta ci hanno dato 100mila euro da spartire. La prima partita combinata la proposi a un buon numero di giocatori, 6 o 7. La partita era Albinoleffe-Pisa, febbraio 2009. Il clan era molto organizzato, ogni 20-30 giorni mi cambiavano la sim del telefono, poi principalmente ci sentivamo su Skype. È durata fino alla prima ondata di arresti, nel maggio 2011”.

Ovviamente, in molti si chiedono come mai calciatori già molto ben retribuiti, arrivino a combinare le partite: Gervasoni non ha alcun timore ad ammettere che lo faceva esclusivamente per soldi, per averne di più di quelli che già guadagnava.

“Perché mi sono venduto le partite? Per soldi. Non so dirti una cifra totale che ho guadagnato, facevo un lavoro in cui guadagnavo bene, anche 10-15mila euro al mese. Ho giocato un anno senza prendere lo stipendio, ma questa non è assolutamente una scusante. Non dormivo tranquillo, ma con un’adrenalina positiva, non sono ipocrita, sono pentito, ho sbagliato ma fondamentalmente mi andava bene il fatto che in così breve tempo portavo a casa così tanti soldi. […] Mi sono sentito una merda, fingevo anche con i miei compagni perché a volte ho giocato anche contro la mia squadra”.

Ovviamente, ci sono delle ‘tattiche’ ben precise per combinare un risultato e se si hanno a disposizione alcuni elementi del puzzle piuttosto che altri, diventa tutto più facile:

“Se si ha il portiere si parte avvantaggiati, poi se hai l’attaccante e un difensore è molto più facile. Adesso ho dubbi guardando le partite? Ho molti dubbi, adesso le guardo con altri occhi, sono molto malfidente. Ho deciso di parlare per togliermi un peso non facile da tenere dentro e poi perché mi avevano beccato con le intercettazioni e avevo paura di fare il carcere. Sono sincero, se non mi avessero beccato sarei andato avanti”.

Infine, Gervasoni si sofferma su una partita in particolare: Atalanta-Piacenza, disputata ad aprile 2010:

“Non ero l’unico a sapere della combine. Durante il giro di ricognizione del campo Doni mi chiese se era tutto ok e quel “tutto ok” capì subito che era riferito al fatto che si trattava della combine. In quell’occasione inizialmente dovevamo perdere con due gol di scarto e successivamente perdere con un over, quindi 3-0, 3-1 e via dicendo. Il problema di quella partita era che loro, anche essendo più forti, non riuscivano a segnare. Per fortuna un mio compagno, non coinvolto della combine, con un intervento grossolano procurò un rigore ma eravamo a più della mezz’ora e dovevamo subire un altro gol. Ero terrorizzato che pareggiassimo, a tal punto che ho dovuto creare questo scontro di gioco che portò al rigore. Poi protestai con l’arbitro perché non potevi far capire ai compagni, all’allenatore che tu l’avessi fatto apposta. In questa partita, da parte nostra eravamo in tre: non voglio fare nomi perché non sono presenti qua, anche se i nomi sono scritti sulle carte. Dell’Atalanta non lo so, so di Doni perché è venuto prima della partita, degli altri non lo so”.

Mirko Nicolino

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