Il caso Vinicius sta diventando internazionale. Con un’eco davvero globale, che non riguarda solo la Spagna dove gioca il calciatore del Real Madrid o il suo Brasile che sta reagendo con forza alle continue manifestazioni di razzismo nei suoi confronti. Per fare un esempio vicino a noi, la prima pagina del Corriere della Sera oggi in edicola mette un approfondimento appena sotto l’apertura dedicata agli aiuti stanziati per i danni dell’alluvione. I termini della questione li ha definiti come meglio non si potrebbe la stessa vittima di questa vera e propria campagna che si registra in ogni trasferta: «Ogni giornata fuori casa una sorpresa sgradevole. Auguri di morte, fantocci impiccati, grida. Non è calcio, è inumano». Aggiungiamo: l’epiteto ricorrente, e non certo pronunciato da pochi isolati tifosi, è «scimmia»: secondo Carlo Ancelotti nell’ultimo Valencia-Real Madrid di pochi giorni fa c’era «tutto lo stadio» a urlarlo. Una situazione che ha fatto prendere una posizione netta al governo brasiliano, con Lula che chiede «misure serie» affinché questa forma di linciaggio smetta. Il Paese è indignato: simbolicamente è stato spento il Cristo Redentore di Rio de Janeiro: nell’era dell’immagine, anche questa è una forma di protesta forte, un modo per trasmettere un messaggio chiaro in tutto il mondo.
Interessante è un’analisi che oggi propone il quotidiano O’Globo, scrivendo che la reazione di Vinicius «ha puntato il dito sulla piaga e ha aperto una questione culturale da sempre nascosta». La cultura prevalente nel calcio – e anche la prassi – prevede che gli atleti devono accettare tutti gli insulti che arrivano dagli spalti. «Vinicius Júnior dice di no, alza la voce. È consapevole del suo ruolo di atleta nero che appartiene a un’élite. E questo – come sostiene lo storico portoghese Miguel Lourenço, autore di libri sul calcio – «genera ancora più rifiuto nei suoi confronti e aumenta in modo esponenziale gli insulti». Come dire: sei un privilegiato, noi tifosi no, perciò ci vendichiamo colpendo il colore della tua pelle.
C’è poi ancora un altro elemento a pesare in questa vicenda. Lo espone il giornalista della Reuters Fernando Kallás, che vive e lavora in Spagna da 13 anni, sostenendo che «la Spagna è indietro di anni rispetto al dibattito mondiale che esiste oggi sul razzismo». Aggiungendo: «Quello che è successo domenica è stato così incredibile e così scioccante che alla fine ha costretto la Spagna a iniziare a guardarsi l’ombelico e a rendersi conto che esiste un problema». Affrontabile immediatamente con uno strumento: il reato d’odio, presente nel codice penale del Paese iberico, che prevede una pena da uno a quattro anni. In questa stagione la Liga ha presentato già otto denunce per gli attacchi al giocatore ammirato da Pelé «per la sua gioia e per il suo talento». Nessuna, finora, ha portato a una sanzione penale.
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