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Che fine ha fatto Mario Corso?

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Le nuove generazioni al massimo ne ricordano il nome, eppure la figura di Mario Corso nell’immaginario interista e non solo equivale a quella di un mito, capace di vincere tutto con la maglia nerazzurra, di fare gol belli e importanti, di essere sulle prime pagine dei giornali per il suo carattere, il suo look, la sua tecnica. Corso nacque in provincia di Verona nell’agosto di 73 anni fa, fu proprio in Veneto che cominciò la sua trafila calcistica e fu proprio un allenatore del posto, Nereo Marini da San Michele Extra, a indottrinarlo fin da giovanissimo nel calcio delle punizioni, poi diventate suo marchio di fabbrica.

Nel 1958 passa dall’Audace, piccola squadra del suo paese, all’Inter guadagnando settantamila lire al mese a 17 anni, niente male per l’epoca; e non ancora maggiorenne si ritaglia uno spazio importante nel club nerazzurro col quale scriverà poi pagine di storia indelebili per la bellezza di 16 stagioni, disputando più di 500 partite condite da 94 gol e mettendo in bacheca 4 scudetti, 2 coppe dei campioni e 2 intercontinentali. Un simbolo, una bandiera, un tassello fondamentale della grande Inter plasmata da Angelo Moratti, che stravedeva per lui, e da Helenio Herrera, che invece voleva disfarsene ad ogni sessione di calciomercato.

Già, perché Mariolino non era un carattere facilissimo e forse proprio per le sue asperità comportamentali non ebbe la fortuna che avrebbe meritato con la Nazionale: contribuì attivamente alle qualificazioni a Cile ’62 con 3 gol all’Israele ma frizioni col ct Edmondo Fabbri lo costrinsero a casa, così come non fu convocato per le spedizioni inglesi e messicane (così come non partecipò agli Europei vittoriosi del ’68), nonostante avesse la stima di Pelé, con cui aveva giocato in qualche amichevole, e degli appassionati italiani che invece erano letteralmente pazzi di lui.

Mario Corso infatti era un giocatore che riusciva a scaldare le platee: aveva un solo piede, il sinistro (poi ribattezzato “di Dio“), ma lo usava per l’appunto divinamente, disegnando punizioni cosiddette a foglia morta (si depositavano in fondo al sacco “afflosciandosi” all’improvviso); non solo, era anche molto intelligente, lui che era un’ala sinistra pura ma che riusciva a fare lanci precisi per i compagni, correndo elegantemente a testa alta (ma coi calzettoni abbassati alla Sivori), non disdegnando colpi spettacolari quali dribbling e palleggi, e vedendo la porta con discreta continuità. Quando nel 1973, a 32 anni, decise di lasciare l’Inter ci pensò il Genoa ad accoglierlo a braccia aperte.

Nel capoluogo ligure non andò come sperava: prima stagione discreta, seconda fallimentare a causa di un brutto infortunio. Si ruppe le tibia in uno scontro di gioco, poi ebbe una ricaduta, fu allora che decise di smettere e dopo qualche mese di smarrimento cominciò a frequentare il corso per allenatori di Coverciano: nel 1978 era già sulla panchina della Primavera del Napoli con cui vinse lo scudetto di categoria, quindi le esperienze a Lecce e Catanzaro, prima di tornare alla “suaInter che guidò anche dalla panchina in sostituzione di Castagner nel’85. Mantova e Barletta le ultime esperienze, dal 1990 a tutt’oggi Mario Corso fa l’osservatore per l’Inter.

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