No, il mercato c’entra fino a un certo punto. L’addio di Conte alla Juventus è figlio di un peccato originale: le cose le due parti se le erano dette in faccia a fine maggio. E tanto doveva bastare. Allegri in conferenza ha fatto la parte dell’uomo caduto dal pero, ma da inizio giugno era pronto a prendersi la Vecchia Signora. Ha fatto fatica Andrea Agnelli a capirlo. E Conte a dare il tutto per definitivo di fronte all’uomo che lo aveva scelto per realizzare uno dei sogni della propria vita.

Quindi Iturbe c’entra e non c’entra, ma va letta al contrario la notizia: il summit finale, quello dell’accordo per la rescissione consensuale, non vede Iturbe al centro di tutto. Anzi, per la Juve Iturbe è già perso e a Conte la cosa non interessa un granché. Il paraguayano-argentino è la quarta scelta per lui, una delle prime per la società che vede in lui l’uomo del salto di qualità. Poi ci sono le condizioni che cambiano, il gruppo proprietario del cartellino che gioca davvero al rialzo, la Roma che gli stava dietro da marzo.

Ecco. Ma Conte cosa voleva? Nuovi stimoli. Quindi una rosa confermata nei 5 capisaldi (inclusi Pogba e Vidal) e una rivoluzione neppure troppo dolce. Sulla rivoluzione, dopo tre scudetti, c’è sintonia con Marotta e Paratici, su tutto il resto no. Cioè, per il club la rivoluzione è esattamente contraria: si devono valutare la plusvalenze, guardare il bilancio, partire dall’idea che tecnicamente a qualcosa bisogna saper rinunciare.

Eppure la dirigenza “molla” presto Berardi. Non affonda su Sanchez perché i tempi non sono maturi (“tutto avverrà dopo il Mondiale“, John Elkann dixit). Non pensa minimamente a trattare Cuadrado con i Della Valle. Conte digerisce, ma il suo disagio viene da troppo lontano. Non bastano Evra, Morata, Pereyra ed eventualmente Iturbe. La Juve non cresce, per lui, neppure dopo tre stagioni esaltanti. Non capisce. Tanto vale lasciare e ribadire ai primi che riescono a contattarlo telefonicamente che “la vita va avanti”.

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