Sulla sciagurata spedizione azzurra in Brasile si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, scegliendo a turno questo o quel capro espiatorio: dalle convocazioni alla tattica, dalle formazioni alla gestione del gruppo. Sì, è vero, gli errori di Cesare Prandelli e – non di meno – della Federazione Italiana Giuoco Calcio sono state tante, ma in pochi hanno puntato l’indice sulla madre delle scelte, quella che a posteriori si è rivelata un vero e proprio boomerang nei confronti del commissario tecnico. La scelta del ritiro degli azzurri a Mangaritiba e il permesso ai nostri calciatori di farsi accompagnare da chicchessia.

Secondo chi scrive, un umile appassionato di calcio come tutti voi che leggete, un Mondiale è qualcosa di serio: asserire che è simile a una guerra è un’iperbole metaforica, eppure le similitudini ci sono. Ci vuole concentrazione, astrazione, riuscire a miscelare una serie di variabili in pochi assunti imprescindibili; l’Hollywood di Milano è materia di domeniche sere meneghine, i social network boutade da ragazzi, mogli, figli e famiglie affetti a cui si può rinunciare per un mese appena. Invece no. Dopo il sorteggio dei gironi mondiali (tutti lo ricordano: Gruppo D con Uruguay, Inghilterra e Costa Rica, partite a Manaus, Recife e Natal), Prandelli, Abete e Albertini si trovarono d’accordo: Casa Azzurri sarà di stanza a Mangaratiba. Punto.

Il punto, quello vero, è che Mangaratiba è tanto graziosa quanto logisticamente impervia: assodate le sedi delle tre sfide per così dire eliminatorie (questo termine col senno di poi è un eufemismo), che senso aveva stabilire il proprio quartier generale a 4mila chilometri in media di distanza dai campi da gioco? I maligni vociferano con cognizione di causa: il ct Prandelli ha scelto senza ombra di dubbi per le pressioni della compagna Novella Benini. Tranquillità, mare, vacanza. I vertici federali hanno dato l’ok, da cui tutto il carrozzone susseguente: come nella Confederations Cup, tutti insieme e appassionatamente, lady Immobile core a core con lady Insigne, Mario e Fanny, Claudio e Roberta etc, etc, etc.

Se io fossi stato il ct, mi sarà concesso nel Paese dei famosi 56 milioni di ct, avrei parlato al gruppo da sergente autoritario e, al contempo, da pari grado che persegue lo stesso obiettivo dei suoi commilitoni:

“Niente Coverciano, a fine campionato si parte subito per il Brasile con destinazione (… scegliete un nome a caso di una località nei pressi di Recife o Natal), si suda e ci si acclimata, come ovvio senza distrazioni di sorta. Non sono cattivo, voglio rendervi felice, per cui seguitemi: fidanzate e mogli, figli e famiglia, per un mese possono cavarsela da soli a casa, noi siamo qua per rendere orgoglioso un Paese e non per far prendere la tintarella ai nostri cari. Giochiamo in città inc*late, per cui il Brasile che conoscete dalle cartoline scordatevelo: se volete vedere Rio o San Paolo guadagnatevelo andando avanti nel torneo. Io e voi – nessuno escluso – ci giochiamo la credibilità e la carriera”.

E invece no. Volo super rilassato con gag italiote, selfie di ordinanza, tende piantate nel super resort, titoloni dopo il 5-3 alla Fluminense e incenso dorato all’indomani del 2-1 all’Inghilterra. Si è visto come è andata a finire: per giocare a calcio ci vuole serietà, per fare bene in un Mondiale professionismo. A differenza di quattro anni fa, ed è tutto dire, non siamo stati né seri né professionisti. Tutti, a partire da chi ha preferito cadere in piedi.

Ps. Il video in cima al post mi piace molto. Soprattutto per il passaggio sull’Ecuador.

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