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Caduta e ascesa di Andrea Stramaccioni

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È troppo presto per rivalutare Stramaccioni, ma dalla sua ha una partenza che in una piazza come Udine può voler dire restare in alto per parecchio tempo. L’ex allenatore dell’Inter, lanciato dall’Inter e bruciato dall’Inter, ha capito molto dalla vita: avere i senatori dalla propria parte è molto, se non tutto. Con quelli nerazzurri ci provò in ogni modo, ma c’era un problema di fondo. Si credevano più allenatori loro di lui, e il timone del comando presto se n’è andato. Mai protetto a dovere, e smarritosi con il passare delle giornate, in Friuli il giovane tecnico romano se la deve vedere soltanto con Di Natale e con la dirigenza.

Finalmente una dirigenza retta, preparata, che ascolta e che si confronta. E Guidolin referente tecnico è il massimo da cui raccogliere spunti e indicazioni, perché lui quel che ha da dire lo dice in faccia e nessuno fuori se ne accorge.
Stramaccioni, oltretutto, ha sentito stima e fiducia, non ci sono gerarchie già scritte. Può ancora combinare qualcuno dei suoi pasticci, ma altresì riconquistare in fretta un top club.

Anche se l’Udinese è una di quelle squadre che si fanno fatica ad accettare (vero Gigi Del Neri?) e altrettanta fatica poi a salutare. È un oasi, dicono. Di certo ognuno fa quel che deve e non una virgola di più. A costo di essere in tanti. A Stramaccioni la famiglia Pozzo ha consentito di portarsi appresso 6 collaboratori di campo (Guidolin ne aveva undici!), in società ognuno ha la propria specificità. Se n’è andato Larini e nessuno se n’è accorto.

Calcisticamente parlando, poi, l’ex guida tecnica dell’Inter ha fatto ciò che Allegri sta facendo alla Juventus: esprime il suo calcio senza toccare il calcio degli altri. Sembra facile, ma non lo è. È comunque segno di intelligenza. Per dire di bravura serve ancora tempo. Sono le prime difficoltà lo spartiacque per l’ultima sentenza (e non i punti nudi e crudi). Perché Stramaccioni non si deve far prendere dalla foga dei mille gol, offensivista spinto nei momenti di esaltazione, perché fu questo, più Moratti, più Cambiasso, più l’evanescenza di un intero management a dar crollare i suoi sogni di gloria all’ombra del Duomo. Ma forse, diciamo forse, non era come si pensava. Non era ancora l’occasione della vita.



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